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 Informazione medica libera per una salute senza condizionamenti... di Admin
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Di seguito tutti i lemmi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di medicina (del 16/09/2007 @ 11:58:35, in Lettera A, visto n. 15612 volte)
Gli antinfiammatori si suddividono in due categorie: non steroidei (Fans, farmaci antinfiammatori non steroidei, il più noto dei quali è l'aspirina) e steroidei (i cortisonici). L'uso degli antinfiammatori è stato limitato sin dall'origine dai problemi gastrici che il loro uso comportava, per esempio un rischio di ulcera gastrica aumentato di dieci volte ca. Infatti i Fans tradizionali bloccano la produzione di prostaglandine, responsabili del dolore (quindi hanno effetto analgesico) e dell'infiammazione, inibendo la cicloossigenasi, l'enzima che controlla la produzione di prostaglandine. In tal modo bloccano anche le funzioni positive delle prostaglandine, per esempio il controllo della produzione del muco gastrico che protegge lo stomaco. Dalla scoperta di P. Needleman che esistono due cicloossigenasi (1, o Cox1, e 2, o Cox2) e che solo la seconda è responsabile dei processi infiammatori (mentre la prima è quella che controlla gli aspetti positivi delle prostaglandine, come la secrezione del muco gastrico) è nata una seconda famiglia di Fans (celecoxib, rofecoxib), meno gastrolesivi. I nuovi prodotti (identificati con nomi commerciali come Celebrex, Artilog e Solexa) sono mutuabili attualmente solo per casi cronici; per l'acquisto è comunque necessaria la ricetta medica. In genere hanno costi più alti e, dopo qualche anno di impiego, si è rilevato che i minori effetti collaterali sono controbilanciati da una minore efficacia. Negli USA (2002) è stata scoperta anche una terza variante dell'enzima Cox (Cox3) coinvolta nella genesi del dolore e della febbre. La scoperta spiega soprattutto perché il paracetamolo non ha funzione antinfiammatoria, ma è ancora prematuro pensare che possa dare origine a una terza generazione di farmaci. L'uso - Trascurando l'azione antipiretica (posseduta da aspirina, nimesulide, piroxicam, ketoprofene), gli antinfiammatori vengono normalmente assunti per alleviare il dolore (cefalee, dolori mestruali, mal di denti, mal di schiena ecc.) o per contrastare infiammazioni (muscoli, tendini, malattie reumatiche ecc.). È da rilevare che alcuni farmaci come il paracetamolo che hanno azione antipiretica non hanno nessuna azione antinfiammatoria. Le controindicazioni riguardano le patologie gastriche, l'insufficienza renale o epatica, la gravidanza, l'allattamento e le allergie individuali. L'abuso - Se gli antinfiammatori sono da considerare in occasione di patologie acute, il loro impiego in patologie croniche deve essere attentamente valutato. È veramente ottimistico pensare di risolvere un mal di schiena con pesanti assunzioni di antinfiammatori. Poiché hanno anche un effetto antidolorifico, possono mascherare il dolore illudendo di un'improbabile guarigione. Poiché sono farmaci di automedicazione, è buona norma usare gli antinfiammatori solo per qualche giorno, poi sospenderli e verificare il reale effetto (cioè il miglioramento). Alcuni medici sostengono che tale periodo è troppo limitato, ma se una patologia richiede una somministrazione di antinfiammatori per 20 o più giorni (ammesso che il paziente la tolleri), ha una gravità tale che non è possibile un'automedicazione, essendo nettamente preferibile il ricorso a un medico che, fra l'altro, può prendere in considerazione altre forme di cura. La scelta - Oltre il 60% dei soggetti risponde alla terapia con antinfiammatori, ma la risposta è individuale nei confronti dei singoli farmaci. Nella scelta dell'antinfiammatorio si deve considerare il principio attivo (non il nome commerciale!) e il suo dosaggio. Poiché il problema maggiore è la gastrolesività, occorre tener conto non solo dei vantaggi, ma anche delle controindicazioni.
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Di medicina (del 04/02/2010 @ 13:47:22, in Lettera A, visto n. 1920 volte)
Un antigene è una molecola riconosciuta come estranea o potenzialmente pericolosa dal sistema immunitario di un organismo e in grado di indurre una reazione immunitaria specifica, che si manifesta con l'attivazione di particolari cellule, i linfociti T, e/o con la produzione di anticorpi. Gli antigeni possono essere classificati in endogeni o esogeni, a seconda che abbiano origine autoctone o estranee all'organismo. Questi ultimi penetrano nel corpo sotto forma di batteri, virus, sostanze chimiche, pollini ecc. e sono fagocitati (mangiati e digeriti) da apposite cellule (macrofagi, monociti e granulociti neutrofili). Questo tipo di riconoscimento permette la prevenzione dell'insorgenza di malattie quando veniamo in contatto con microrganismi patogeni, poiché ne provoca l'eliminazione prima che questi possano moltiplicarsi in modo significativo e dare danno. È però un riconoscimento che necessita di un contatto precedente con il microrganismo in questione, che può dare malattia, in seguito l'organismo conserverà la memoria dell'infezione e sarà in grado di proteggersi da successive reinfezioni, come nel caso delle malattie infettive dei bambini. Il primo contatto, che determina l'instaurarsi dell'immunità, può però avvenire anche in maniera artificiale, attraverso i vaccini che hanno proprio il compito di esporre il sistema immunitario ad antigeni tipici di alcuni patogeni senza indurre la malattia. Normalmente il sistema immunitario non permette che vengano sintetizzati anticorpi contro molecole proprie (self); questo controllo è poco efficace nelle malattie autoimmuni, dove si instaurano reazioni immunitarie dirette contro cellule dell'organismo, riconosciute ed identificate come se fossero agenti esterni pericolosi. Di solito gli antigeni sono di natura proteica o polisaccaridica, ma anche elementi più semplici (metalli, frammenti di DNA ecc.) possono divenire antigenici ed immunogenici combinandosi con le proteine proprie dell'organismo e modificandole.
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Di dr.psico (del 14/07/2007 @ 21:50:01, in Lettera A, visto n. 1466 volte)
Paura vaga e persistente di pericoli imminenti, a volte solo immaginati, può essere anche una sensazione di angoscia senza oggetto definito. Può avere intensità differente fino ad arrivare a rendere molto complicata la vita quotidiana di chi ne soffre.
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Di Admin (del 09/01/2012 @ 14:37:29, in Lettera A, visto n. 1483 volte)
Perdita transitoria o permanente, congenita o acquisita, unilaterale o bilaterale, della sensibilità olfattiva. Può essere causata da trauma cranico, dal Morbo di Parkinson, dal Morbo di Alzheimer o da alcune neoplasie cerebrali. L’anosmia può causare, oltre alla perdita dell’olfatto, l’abolizione della maggior parte delle sensazioni gustative. La terapia si differenzia in rapporto ai fattori causali. Risultati efficaci si ottengono, dopo un trattamento medico o chirurgico, nelle forme dovute ad alterazioni delle cavità nasali, invece, si hanno scarsi risultati nelle forme dovute a lesioni irreversibili della mucosa olfattiva, dei nervi e dei centri nervosi olfattivi.
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Di riccardosimoni (del 24/10/2013 @ 14:01:38, in Lettera A, visto n. 1349 volte)
Psichiatra Firenze ANORESSIA E BULIMIA: I DISTURBI PSICOPATOLOGICI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE Aspetti anatomo-fisiologici della fame e della sazietà. Perché mangiamo? Perché abbiamo fame! è la risposta immediata, oltremodo ovvia, degna degli scudieri del cavaliere di La Palice, “che se non fosse morto, sarebbe ancora vivo”. In realtà le ragioni che ci portano a mangiare sono numerose e tra loro interconnesse: fattori di tipo genetico, biologico, psicologico, familiare e sociale concorrono a creare le nostre abitudini alimentari e di vita, tanto che la alimentazione rappresenta un comportamento complesso all’interno di una rete di motivazioni. Nel 1940 Hertherington e Ranson descrivono un “doppio centro” della fame e della sazietà all’interno dell’ipotalamo: due zone circoscritte, scoperte tramite studi di lesione su animali. Sperimentalmente piccole lesioni anatomiche a livello dell’ ipotalamo laterale provocavano grave diminuzione del desiderio di cibo, anoressia e deperimento. In maniera speculare, provocando lesioni a livello dell’ipotalamo mediale, si verificava la comparsa di alimentazione eccessiva e obesità. Si è quindi ipotizzato che nell’ipotalamo laterale risiedesse il centro della fame e nell’ipotalamo ventromediale il centro della sazietà. Dall’ipotesi del “doppio centro” giungiamo oggi all’attuale modello “dinamico” anatomofisiologico: le sensazioni di fame e sazietà si generano e si modulano all’interno di un sistema omeostatico complesso organizzato a rete, con numerosi nodi di interscambio e altrettanti meccanismi di autoregolazione. La “centralina” di tale network, fondamentale ai fini della traduzione dei segnali periferici e loro elaborazione e la integrazione di risposte omeostatiche è la area ièpotalamica : la moderna neurobiologia considera l’ipotalamo l’area privilegiata ai fini della regolazione dei comportamenti motivati, quindi, tra i comportamenti motivati primari, la regolazione del comportamento alimentare. La natura ci ha dotato, inoltre, di un “programma” per resistere con grande efficienza alla carestiapiù che alla iperalimentazione: gli individui in grado di ripristinare, accumulare e conservare con facilità le riserve energetiche sono dotati di un adattamento decisamente migliore in termini di evoluzione per la sopravvivenza. L’ipotesi secondo la quale il Sistema Nervoso Centrale tiene sotto controllo la quantità di grasso corporeo e agisce per conservare un giusto livello di riserve energetiche viene definita “ipotesi lipostatica” descritta da Kennedy nel 1953. Dati sperimentali successivi su topi geneticamente obesi ob/ob, carenti di una proteina non identificata, suggeriscono l’ipotesi di una comunicazione omeostatica tra il SNC e tessuto adiposo. Friedmann e Halaas nel 1998 identificano la proteina sintetizzata dal gene ob: è l’ormone leptina ( dal greco “leptos”, sottile) secreto dalle cellule adipose e in grado di regolare a feedback negativo la massa grassa corporea agendo direttamente sui neuroni dell’ipotalamo. In sostanza, la leptina è il “messaggero” che informa il nostro SNC della presenza di adeguate riserve energetiche di grasso e che, di conseguenza, innesca una risposta di inibizione dell’alimentazione. La leptina circolante, secreta dagli adipociti, innesca tramite i propri recettori sul niclea arcuato dell’ipotalamo, un meccanismo omeostatico a feedback negativo a cui partecipano anche vari altri peptidi ipotalamici, alcuni ad azione anoressizzante che inibiscono la ricerca di cibo (ormone alfa-melanocita-stimolante o MSH; trascritto e regolato dalla anfetamina e cocaina, CART); altri di tipo oressigeno, che stimolano la ricerca e l’assunzione di cibo (neuropeptide Y, NPY; peptide associato all’Argouti, AgRP). Analizzando la complessità e l’efficienza dei meccanismi di regolamentazione alimentare si capisce quanto sia ingrato il compito del dietologo: pensare di ridurre la propria massa grassa tramite il solo atto volontario del “mangiar meno” rappresenta poco più che una illusione. Tale atto viene interpretato dall’organismo come uno stato di carestia parziale e quindi l’organismo difende le proprie riserve di grasso e cerca in ogni modo di ricostituirle. A complicare ulteriormente la situazione vi sono le risposte multiple che l’organismo mette in atto per difendersi dalle carenze di energia. In effetti, avalle del nucleo arcuato dell’ipotalamo, i peptici anoressizzanti e oressigeni innescano una risposta integrata a tre livelli: 1° livello umorale: attraverso i neuroni ipotalamici del nucleo paraventricolare, si ha una secrezione di TSH e ACTH e di conseguenza una modificazione della attività metabolica di base. In breve: meno mangiamo e più il metabolismo si rallenta per ridurre le perdite energetiche. 2° livello attraverso i neuroni pregangliari del midollo spinale, con aumento dell’attività orto e para-simpatica e conseguente ulteriore modificazione del metabolismo. Ad esempio, se mangiamo poco, aumenta l’attività viscerale parasimpatica deputata alla assimilazione degli alimenti. 3° livello motorio somatico, attraverso l’area ipotalamica laterale , con proiezioni diffuse a livello corticale e conseguente aumento o diminuzione dei comportamenti motivati coscienti per la ricerca del cibo. Quindi, in caso di scarse riserve energetiche, non solo risparmiamo energie con i meccanismi 1° e 2°, ma siamo biologicamente spinti a ricercare e assumere più cibo! Il livello più alto di tipo motorio somatico è fondamentale ai fini della programmazione dei comportamenti alimentari motivati. E’ da sottolineare l’importanza dell’area ipotalamica laterale all’interno della quale sono state identificate due ulteriori sostanze aressigene: l’MCH ( ormone melanina-concentratore) e l’oressina. Dati sperimentali evidenziano come la stimolazione elettrica dell’ipotalamo laterale e l’iniezione intratecale di MCH evocano la stessa risposta: una stimolazione di comportamenti volti alla ricerca di cibo anche in animali sazi.
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Di Dr.ssa Maglioni (del 04/02/2011 @ 16:26:47, in Lettera A, visto n. 2169 volte)
Riduzione o perdita dell'appetito a cui consegue perdita di peso. Nella maggior parte delle malattie organiche l'anoressia è conseguenza della malattia stessa. Frequentemente si associa alla depressione. Una forma di anoressia che non è rapportabile a malattie o cause organiche è definita anoressia mentale o nervosa. Di origine psicologica, è un rifiuto del cibo che porta a dimagrimento grave e può avere anche conseguenze fatali. Questo tipo di anoressia colpisce soprattutto individui di sesso femminile durante l'adolescenza o negli anni immediatamente successivi. Il campanello d'allarme per i familiari deve scattare se si manifestano alcuni comportamenti quali : drastica perdita di peso, tendenza ad evitare i pasti collettivi, assunzione di diuretici e lassativi, rifiuto di mantenere il peso al di sopra di una soglia minima ritenuta normale, forte paura di ingrassare, ossessione per il l'aspetto fisico, sport praticato in modo eccessivo per bruciare calorie, interruzione del ciclo mestruale, rifiuto di ammettere la propria magrezza e la gravità delle proprie condizioni fisiologiche. Di fronte a tali sintomi è necessario ricorrere prontamente all’opera dei medici e soprattutto fornire un valido aiuto psichiatrico; spesso si giunge alla necessità di ricovero ospedaliero per istituire una adeguata nutrizione parentale per ripristinare le ideali condizioni fisico-metaboliche.
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Di Sintomi (del 16/09/2007 @ 18:26:33, in Lettera A, visto n. 14780 volte)
Con questa definizione si indicano tutte le alterazioni che riguardano il numero o la struttura dei cromosomi Le anomalie cromosomiche sono responsabili di circa il 50% degli aborti spontanei e sono un’importante causa di malformazioni. I vari tipi di anomalie cromosomiche:
LE ANOMALIE NUMERICHE Le monosomie sono condizioni in cui un cromosoma è presente in singola copia anziché in duplice copia. Il numero totale di cromosomi è quindi 45 invece di 46. Ad esempio, monosomia 5 indica la presenza di un solo cromosoma 5 invece di due. L’assenza totale di un autosoma è talmente grave da essere incompatibile con la vita: pertanto quando è presente in un feto causa un aborto spontaneo. Talvolta si indica con il termine monosomia anche l’assenza di un braccio cromosomico, invece che dell’intero cromosoma. L’assenza di un braccio cromosomico è a volte compatibile con la vita, come nel caso della 18p-. Questa sindrome è causata dall’assenza del braccio corto (p) del cromosoma 18, e viene detta anche monosomia 18p. La monosomia 18p non è però una vera e propria anomalia numerica dei cromosomi (il numero totale di cromosomi è 46) ma piuttosto una anomalia strutturale (una delezione - vedi più avanti). Le trisomie sono condizioni in cui un cromosoma è presente in triplice copia, il numero totale di cromosomi è quindi 47 invece di 46. Le uniche trisomie che si riscontrano nella vita post-natale sono la trisomia del cromosoma X nelle femmine, la trisomia 21, la trisomia 18, la trisomia 13. Le altre trisomie complete non sono compatibili con la vita e quando sono presenti in un feto sono causa di aborto spontaneo. Il termine trisomia viene impiegato anche per indicare la presenza in triplice copia di una regione cromosomica. Ad esempio, la trisomia 9p consiste nella presenza in triplice copia del braccio corto del cromosoma 9. Anche in questo caso non si tratta di una vera e propria anomalia numerica, ma piuttosto di una anomalia strutturale dovuta a duplicazione o traslocazione (vedi più avanti). Il meccanismo che più comunemente causa una trisomia è la non disgiunzione dei cromosomi durante la divisione cellulare che porta alla formazione di ovociti e spermatozoi: anziché separarsi l’uno dall’altro nelle 2 cellule figlie, i 2 cromosomi di una coppia vanno entrambi nella stessa cellula figlia. Pertanto, in seguito alla fecondazione tale cromosoma sarà presente in 3 copie anziché in 2 copie. La causa della non disgiunzione non è ancora nota, anche se è stato dimostrato che l’età materna è un fattore di rischio per eventi di non disgiunzione: all’aumentare dell’età tale evento si verifica più frequentemente. LE ANOMALIE STRUTTURALI Le delezioni consistono nella perdita di un frammento di cromosoma le cui dimensioni possono essere molto diverse. Le delezioni si possono evidenziare in un cariotipo attraverso l’assenza di una o più bande cromosomiche, o addirittura di un intero braccio, come avviene ad esempio nella sindrome 18p. L’effetto di una delezione dipende dalla grandezza della porzione mancante e dal tipo di informazione genetica in essa contenuta: in una sola banda cromosomica possono trovarsi centinaia di geni. Le microdelezioni, rispetto alle delezioni, consistono nella perdita di frammenti cromosomici più piccoli e non sono evidenziabili attraverso un normale cariotipo. Esempi di sindromi da microdelezione sono: la s. di Prader-Willi, la s. di Angelmann, la s. di Di George, la s. di Williams. La perdita di materiale genetico è in genere nell’ordine di una o qualche decina di geni. Le duplicazioni e microduplicazioni consistono nella presenza in due copie di uno stesso frammento di cromosoma: è come se una o più parole di una frase fossero ripetute. Ad esempio, la malattia di Charcot-Marie-Tooth 1A è causata da una microduplicazione che coinvolge un frammento posto sul braccio corto del cromosoma 17 (11p). Le inversioni consistono nel distacco di un frammento che successivamente si riposiziona sul cromosoma, dopo una rotazione di 180°. Le traslocazioni consistono nel trasferimento di materiale tra due o più cromosomi diversi. Le traslocazioni bilanciate sono il caso più fortunato: consistono infatti nello “scambio alla pari” di frammenti fra cromosomi diversi. Questo tipo di traslocazione non comporta perdita di materiale genetico e perciò i portatori di una traslocazione bilanciata non manifestano in genere alcun segno clinico. Nel caso di una traslocazione non bilanciata, uno o più cromosomi in seguito alla traslocazione hanno subito la perdita di materiale genetico, mentre altri ne hanno in sovrappiù. Chi è portatore di una traslocazione bilanciata, pur non manifestando alcun sintomo, rischia di avere figli portatori di traslocazioni patologiche (non bilanciate). Le cause: Un feto o un bambino colpiti da un’anomalia cromosomica hanno quasi sempre genitori perfettamente normali. La causa delle anomalie cromosomiche è in genere da ricercarsi in un errore accidentale durante la formazione delle cellule-uovo o degli spermatozoi dei genitori. Durante la formazione delle cellule riproduttive i cromosomi subiscono un complesso processo di divisione e di “rimescolamento” ed è possibile, anche se relativamente raro, che insorgano alterazioni cromosomiche. Un discorso a parte riguarda le alterazioni cromosomiche che insorgono durante la vita adulta e che sono alla base di numerose forme di tumore. In genere, questo tipo di alterazioni avviene in una singola cellula di un individuo adulto che diventa cancerogena ed origina una popolazione (clone) di cellule tumorali. Un esempio molto noto è quello della leucemia mieloide cronica che è causata da una traslocazione fra il cromosoma 9 ed il cromosoma 22. In moltissimi altri tipi di cellule tumorali è possibile riscontrare anomalie cromosomiche che contribuiscono alla trasformazione maligna. La diagnosi: L’assetto cromosomico di un individuo, cioè il numero di cromosomi, il tipo di cromosomi sessuali ed eventuali anomalie (numeriche o strutturali) è anche definito cariotipo. Per esaminare il cariotipo di un individuo adulto si utilizzano generalmente i globuli bianchi ottenuti da un semplice prelievo di sangue. In seguito ad opportune procedure e colorazioni, è possibile rendere visibili al microscopio i cromosomi presenti nel nucleo di queste cellule. Si possono studiare i cromosomi anche da cellule del midollo osseo, della placenta, del liquido amniotico e da alcuni tessuti in cui sono presenti cellule in fase di crescita. Il cariotipo di un feto, ad esempio, può essere analizzato da cellule fetali presenti nel liquido amniotico, nei villi coriali o nel sangue fetale. Il settore della genetica che si occupa dello studio dei cromosomi è detto citogenetica e quindi l’analisi cromosomica è spesso indicata come analisi citogenetica. Ognuno di noi possiede 46 cromosomi, di cui: · 2 cromosomi sessuali: il cromosoma X e il cromosoma Y. Le femmine possiedono 2 copie del cromosoma X (XX), i maschi possiedono 1 cromosoma X e 1 cromosoma Y (XY). · 44 cromosomi "non sessuali" (autosomi) uguali 2 a 2. In altre parole, 22 coppie di autosomi. · ogni cellula dell'individuo possiede lo stesso corredo cromosomico di 46 cromosomi. Il cariotipo di un maschio normale è quindi 46, XY. Di questi, X e Y sono i cromosomi sessuali: il cromosoma X è ereditato dalla madre, il cromosoma Y dal padre. Il cariotipo di una femmina normale è 46, XX. L’unica differenza rispetto al maschio risiede nei cromosomi sessuali, che in questo caso sono rappresentati solo dal cromosoma X: uno è ereditato dalla madre, l’altro dal padre. E’ possibile distinguere i cromosomi in base alla loro dimensione ed alla loro forma. Inoltre, con specifiche colorazioni è anche possibile evidenziare delle bande trasversali all’interno di ogni cromosoma, che identificano precise regioni. I cromosomi sono numerati progressivamente in base alle loro dimensioni: il cromosoma 1 è il più grande di tutti mentre il cromosoma 22 è il più piccolo. In ogni cromosoma si distinguono un braccio corto, indicato come “p”, un braccio lungo, indicato come “q” ed una costrizione centrale detta “centromero”. L’analisi del cariotipo fetale permette di evidenziare anomalie numeriche e strutturali dei cromosomi del feto. Mentre le anomalie numeriche sono evidenziabili facilmente, alcune anomalie strutturali, come ad esempio le microdelezioni, possono essere di più difficile identificazione e richiedono metodiche di analisi più sofisticate.
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