Di seguito tutti i lemmi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
È il tessuto adiposo localizzato al di sotto del derma ed è costituito da lobuli serapari tra loro da tralci ricchi di fibre detti retinacoli, connessi da un lato al derma e dall’altro alla fascia muscolare e/o al periostio. Si divide in uno strato superficiale e uno profondo. Nel primo i lobuli sono rotondeggianti, nel secondo sono appiattiti. Questo secondo strato non è presente sul palmo delle mani e sulla pianta dei piedi. Nella testa e nel collo i due strati sono separati tra loro dalla fascia superficiale, in cui si dispongono i muscoli pellicciai.
L'ipofosfatemia legata all'X (XLH) è una rara malattia ereditaria dovuta a mutazioni nel gene PHEX che causa significative deformità scheletriche fin dalla giovane età, in Italia è stimata un'incidenza di 1 caso su 20.000 persone ma c'è ancora scarsa informazione al riguardo.
"I primi segni della XLH compaiono, di solito, attorno al primo o al secondo anno di vita e, se non trattati, tendono progressivamente a peggiorare nel tempo, comportando, già nell'infanzia e nell'adolescenza, l'insorgenza di gravi deformità ossee che spesso richiedono l'intervento chirurgico, a volte anche molto invasivo - afferma Giampiero Baroncelli, dirigente medico dell'unità operativa di Pediatria universitaria dell'Azienda ospedaliero-universitaria pisana -. Nell'età adulta, i pazienti mostrano un sensibile aumento del rischio di processi degenerativi a carico delle articolazioni che possono comportare il posizionamento di protesi, anche in giovane età. Inoltre, la presenza di dolori osteo-articolari e muscolari condiziona la qualità di vita dei pazienti. È perciò importante definire i criteri per una diagnosi precoce della malattia e uniformare i protocolli di cura, al fine di migliorare la gestione della patologia orientando i pazienti e le famiglie verso il centro specializzato più vicino". Il Pdta (percorso diagnostico terapeutico e assistenziale) per i pazienti affetti da XLH è attualmente oggetto di analisi.
"Il trattamento dei pazienti con XLH con un nuovo farmaco (burosumab), che è in grado di modificare la storia naturale della malattia, consentirà un sensibile miglioramento della qualità di vita - continua Baroncelli -. A questo deve affiancarsi un'efficace assistenza socio/sanitaria, sia ospedaliera che territoriale, ed un adeguato supporto psicologico, non solo del paziente ma anche delle famiglie".
"L'XLH è una malattia poco conosciuta e molto spesso tardivamente diagnosticata. Per la svariata sintomatologia osteo articolare che presenta, l'XLH è una patologia fortemente dolorosa e progressivamente invalidante, che necessita di numerosi interventi chirurgici - afferma Manuela Vaccarotto, vicepresidente Aismme -. Per questi pazienti è fondamentale una diagnosi precoce e un'immediata presa in carico in Centri di expertise che, in collaborazione con l'Assistenza e la Sanità sul territorio, possono accompagnarne e migliorarne la qualità della vita".
Condizione clinica caratterizzata da una carente funzione delle ghiandole sessuali, o gonadi. Si distinguono ipogonadismi primitivi da malattia testicolare od ovarica; e ipogonadismi secondari, per alterazioni ipotalamo-ipofisarie. Le cause e i sintomi di ipogonadismo sono assai diversi nei due sessi e secondo l’età di insorgenza dell’alterazione. Nel maschio in età prepubere si ha eunucoidismo, con aspetto infantile dei genitali, mancato sviluppo dei caratteri sessuali secondari, talvolta ritardo nella maturazione psichica; nell’uomo adulto si osserva diminuzione del desiderio sessuale, impotenza e, nelle forme avanzate, regressione dei caratteri sessuali e diminuzione di volume dei testicoli. Le cause di ipogonadismo maschile sono molteplici: genetiche da anomalie cromosomiche (sindrome di Klinefelter), congenite (criptorchidismo), acquisite da lesioni infettive (parotite), tossiche, radianti; secondarie a patologie ipofisarie (ipopituitarismo, adenomi, iperprolattinemia) e a insensibilità dei tessuti agli ormoni androgeni. L’ipogonadismo maschile si tratta con testosterone, che è in grado di mantenere le caratteristiche fisiche, ma non sempre di garantire la fertilità; questa viene ottenuta, soprattutto nei soggetti giovani, con la somministrazione di gonadotropine. Tra le complicazioni a lungo termine è grave, in entrambi i sessi, l’osteoporosi da carenza di steroidi sessuali. Nella donna l’ipogonadismo determina, anche in questo caso con aspetti diversi secondo l’età del soggetto, amenorrea, irregolarità mestruali, cicli senza ovulazione e pertanto infertilità, mancata comparsa o regressione dei caratteri sessuali. Le più frequenti cause sono: genetiche (sindrome di Turner); congenite (malformazioni anatomiche dell’apparato genitale); acquisite ipofisarie (ipopituitarismo, tumori, iperprolattinemia) o ipotalamiche (anoressia nervosa); da eccesso di androgeni (policistosi ovarica, tumori ovarici o surrenali producenti androgeni). La terapia consiste nel trattamento della malattia di base, seguito da somministrazioni di estrogeni e progestinici ed eventualmente di gonadotropine, per ricostruire con i farmaci una situazione ormonale il più possibile simile al fisiologico ciclo mestruale.
È la diminuzione generale dell’attenzione. Il soggetto risulta incapace di organizzare selettivamente l'attività mentale. La causa può essere una lesione nella corteccia cerebrale o una forma di psicosi o di depresione. È anche la prima manifestazione clinica di demenza.
vedi Anossiemia.
Detto anche eminenza ipotenar o eminenza ipotenare, è il rilievo muscolare che si trova alla base del mignolo della mano, sulla faccia palmare. È costituito dai muscoli abduttore, flessore e opponente del mignolo e dal muscolo palmare breve, cutaneo, di forma triangolare. Tutti i muscoli dell'ipotenar sono innervati dal nervo ulnare.
È un trattamento di primo soccorso che si utilizza su pazienti vittime di arresto cardio-circolatorio (ACC) atto a ridurre il tempo di arresto e quindi il danno ipossico legato all’assenza di
flusso ematico cerebrale.
L’obiettivo è quello di raggiungere la temperatura interna < 34°C (32-34°C) nel minor tempo possibile (nostro obiettivo entro 2 ore, al massimo entro 6 ore). Valori inferiori di temperatura sono controindicati in letteratura in quanto incrementano solo gli effetti collaterali senza miglioramento dei risultati neurologici. Nei mezzi di soccorso il raffreddamento si ottiene tramite metodi attivi e passivi. I primi, decisamente più efficaci, prevedono l’utilizzo di due linee di infusione periferiche su cui infondere le flebo fredde a 4 °C a velocità elevata oltre all’apposizione di buste di ghiaccio istantaneo a livello dei grossi vasi (inguine, collo,ascelle, tronco). È consigliato avvolgere una parte del deflussore attorno aduna sacca di ghiaccio. I sistemi passivi prevedono la denudazione del paziente in ambiente preferibilmente condizionato ( temperatura non oltre i 15°C) e l’utilizzo di teli termici (oro/argento). Nel caso d’induzione o mantenimento intraospedaliero si ricorre anche all’utilizzo di materassi refrigeranti, a sistemi di ventilazione fredda (sistema tunnel), all’infusione in vena centrale (in alternativa alle vie periferiche) e all’accurato isolamento termico delle vie d’infusione.
La durata del mantenimento è di 24 ore dal momento del raggiungimento del target termico. In entrambe le circostanze (extra/intraospedaliero) il mantenimento, raggiunta la temperatura di 33°C, si ottiene con il controllo dei sistemi di raffreddamento. Nella gran parte dei casi si sospendono, o si riducono, le infusioni fredde mentre si mantengono in funzione gli altri presidi. In ogni caso ad indirizzare il comportamento degli operatori saranno i valori di temperatura rilevati (timpanica sul
territorio, vescicale/esofagea in ospedale).
La normalizzazione della temperatura deve essere ottenuta in maniera graduale in non meno di 8 ore. Se necessario è possibile ricorrere all’utilizzo di antipiretici. Queste ultime due fasi di mantenimento e ritorno alla normotermia (e verosimilmente anche il raggiungimento del target termico) si realizzano sempre all’interno del reparto di Rianimazione. Un attento monitoraggio (sia in ambulanza che in Terapia Intensiva) limita i possibili effetti collaterali che l’ipotermia terapeutica può comportare, quali squilibri elettrolitici e glicemici, coagulopatie e sviluppo di infezioni.
Attualmente l’incidenza stimata dall’American Heart Association dell’arresto cardiaco nei paesi industrializzati è di 0,55 casi su 1000 abitanti. Nei due terzi dei casi non vi sono sintomi premonitori e circa il 60% è trattato dai servizi di emergenza extraospedalieri (questo valore varia secondo la realtà geografica). La maggioranza degli arresti trattati presenta, al momento dell’arrivo dei soccorsi, una fibrillazione ventricolare. A questo tipo di aritmia si associa una maggiore percentuale di successo della rianimazione. Sul totale degli arresti circa il 20% è resuscitato con successo grazie alle attuali tecniche. Nonostante lo sviluppo, la diffusione e l’aggiornamento delle procedure rianimatorie
la prognosi a distanza dell’evento è, in termini di disabilità neurologica, ancora ad oggi, infausta.
Tra i pazienti sopravvissuti, circa l’80% rimane in coma post-anossico per periodi più o meno prolungati. Successivamente circa il 40% dei pazienti evolve verso uno stato vegetativo persistente e la mortalità ad un anno rimane decisamente elevata (80%). Molti fattori incidono sulla prognosi,
primi tra tutti il ritmo di presentazione (defibrillabile o non), la tempestività dei soccorsi, la precocità di induzione dell’ipotermia terapeutica. È ormai certo che l’ipotermia controllata in pazienti selezionati che hanno subito un ACC rappresenta uno strumento fondamentale per la prevenzione del danno neurologico, in particolar modo quello secondario alla ripresa del circolo (danno da riperfusione).
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