C'è un paradosso biologico alla base della durata della vita delle specie animali. Più quest'ultima è lunga, minore sarà l'accumulo di mutazioni genetiche nel suo Dna. A confermare il paradosso è uno studio pubblicato su Nature da ricercatori del Wellcome Sanger Institute e della Società zoologica di Londra, che hanno confrontato il tasso di accumulo delle mutazioni in vari mammiferi, fra cui l'uomo.
Nella maggior parte dei casi, le mutazioni cui il nostro organismo è sottoposto sono innocue, ma alcune possono compromettere il funzionamento della cellula, spingendola verso un invecchiamento precoce o un'evoluzione tumorale.
"In altre parole, più lunga è la vita di un organismo, più alto è il numero di mutazioni che sarebbe lecito aspettarsi, incluse quelle dannose", spiega Maurizio Genuardi, professore di genetica medica dell'Università Cattolica a Roma e presidente della Società europea di genetica umana. Un altro rebus tuttora senza risposta è riassunto dal paradosso formulato dallo statistico Richard Peto. "Poiché i tumori si sviluppano da singole cellule, le specie più grandi - e quindi costituite da più cellule - dovrebbero avere, a rigor di logica, un rischio molto più elevato di cancro. In realtà , è stato dimostrato che esso non dipende dalle dimensioni corporee: l'elefante ha un'incidenza di tumori ben più bassa di quella di animali più piccoli", riprende l'esperto.
I ricercatori inglesi hanno analizzato i tassi di mutazione somatica in singole cellule staminali di 16 specie di mammifero, dall'uomo alla giraffa, dalla tigre al leone passando per l'immancabile topo. Le sequenze dell'intero genoma sono state ricavate da 208 cripte intestinali prelevate da 48 individui.
Hanno così scoperto che le mutazioni erano causate da meccanismi simili in tutte le specie considerate, compreso l'uomo.
Secondo Alex Cagan, primo autore dello studio, "scoprire che la durata della vita è inversamente proporzionale al tasso di mutazioni somatiche suggerisce che esse possano svolgere un ruolo nell'invecchiamento. In futuro, sarebbe affascinante estendere questi studi a specie ancora più diverse, come gli insetti o le piante".
Rimane tuttavia senza spiegazione il paradosso di Peto: "Sebbene l'ipotesi della regolazione del tasso di mutazione sia una soluzione elegante per spiegare l'incidenza dei tumori tra le diverse specie, l'evoluzione non sembra aver preso questa strada. È del tutto plausibile che, ogni volta che una specie evolve di dimensioni maggiori rispetto ai suoi antenati, la biologia escogiti una soluzione differente a questo problema", aggiunge il collega Adrián Báez Ortega.
"Il progressivo accumulo di mutazioni somatiche nel corso della vita è uno dei processi ritenuti alla base dell'invecchiamento: più volte si replica una cellula, maggiore è il numero di mutazioni che emergeranno. Le modifiche del Dna possono alterare la funzionalità delle proteine che a loro volta possono indurre cambiamenti fisiologici nell'organismo", riprende Genuardi. "Sappiamo però che l'invecchiamento dipende da un insieme di fattori. Tra questi vi sono le alterazioni epigenetiche, che possono cambiare il funzionamento del Dna e dunque l'attività dei geni, e l'accorciamento dei telomeri dei cromosomi: queste piccole porzioni di Dna, che proteggono l'estremità dei cromosomi, vengono ridotte a ogni replicazione".
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