Come andare oltre la capacità diagnostica dell'angiografia e ridurre al minimo il rischio di recidive in caso di infarto? Se lo è chiesto un nuovo studio dell'Università di Lund pubblicato su The Lancet e coordinato da David Erlinge.
Il punto è trovare quelle lesioni aterosclerotiche che le normali angiografie non riescono a individuare. Queste lesioni sono in genere ricche di cellule adipose, quindi pericolosamente tendenti alla frammentazione e alla creazione di nuovi coaguli in grado di ostruire di nuovo i vasi e provocare una seconda ischemia.
Il metodo sperimentato dai ricercatori si basa sull'azione combinata di due tecniche già note: la Nirs (Near-Infrared Spectroscopy) che sfrutta gli infrarossi, e la Ivus, basata sull'analisi degli ultrasuoni.
La normale angiografia mostra solo ciò che avviene nella parte più interna dei vasi sanguigni, mentre l'associazione fra le due tecniche consente di valutare l'intera struttura arteriosa. Le lesioni ricche di cellule adipose acquisiscono una colorazione giallastra che le rende distinguibili.
Lo studio ha analizzato quasi 900 persone che avevano subito un infarto e sono state trattate con l'angioplastica tradizionale seguita da posizionamento dello stent. I soggetti sono stati seguiti nel tempo, e nei quattro anni successivi al primo infarto il 14,4% di loro ha accusato nuove difficoltà respiratorie. In 8 pazienti su 100 la causa delle ischemie era legata a una placca non individuata e quindi non trattata. Stando alle stime, per ogni persona ci sarebbero almeno 4 placche non trattate.
L'utilizzo del test combinato luce infrarossa/ultrasuoni può aiutare a individuare meglio le placche ricche di grassi che ancora sfuggono alle analisi tradizionali.
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