Dormire in maniera irregolare può aumentare il rischio di demenza. A dirlo è uno studio pubblicato su Neurology da un team della Monash University di Melbourne guidato da Matthew Paul Pase, che spiega: "Le raccomandazioni per la salute del sonno spesso si concentrano sulla quantità consigliata, che è di 7-9 ore a notte, ma c'è meno enfasi sul mantenere orari regolari. I nostri risultati suggeriscono che la regolarità del sonno di una persona è un fattore importante per il rischio di demenza".
Allo studio hanno partecipato oltre 88.000 persone con un'età media di 62 anni seguite per una media di 7 anni. I volontari indossavano un dispositivo da polso per verificare il loro ciclo di sonno.
In questo modo è stata calcolata la regolarità del sonno dei partecipanti. La regolarità del sonno pari a 100 è relativa a una persona che dorme e si sveglia sempre negli stessi orari, mentre una persona che dorme e si sveglia a orari diversi ogni giorno ottiene un punteggio pari a zero. Nel campione di riferimento 480 persone hanno finito per sviluppare la demenza, evidenziando un aumento del rischio al diminuire del punteggio sulla regolarità del sonno. Le persone con il sonno più irregolare (un punteggio medio di 41) avevano il 53% in più di probabilità di sviluppare la demenza rispetto alle persone nel gruppo intermedio (un punteggio medio di 60).
"In base ai nostri risultati, le persone con sonno irregolare potrebbero aver bisogno solo di migliorare la loro regolarità del sonno a livelli medi, rispetto a livelli molto alti, per prevenire la demenza", conclude Pase.
Un altro studio ha analizzato il rapporto specifico fra Alzheimer e disturbi del sonno. È stata appena pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Acta Neuropathologica Communications†la scoperta che per la prima volta dimostra direttamente il legame tra sonno e malattia di Alzheimer.
Il lavoro, frutto della collaborazione tra il Centro di Medicina del sonno dell'ospedale Molinette della Città della Salute di Torino e il Neuroscience Institute of Cavalieri Ottolenghi (NICO), entrambi afferenti al Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini†dell'Università di Torino, ha esaminato l'effetto di un sonno disturbato in topi geneticamente predisposti alla deposizione di beta-amiloide.
La sola frammentazione del sonno ottenuta inducendo brevi risvegli senza modificare il tempo totale del sonno, per un periodo di 1 mese (approssimativamente corrispondente a 3 anni di vita dell'uomo), compromette il funzionamento del sistema glinfatico, fa aumentare il deposito della proteina beta-amiloide e compromette irreversibilmente le funzioni cognitive dell'animale anche se giovane.
Il riposo notturno nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer è spesso disturbato fino ad arrivare ad una vera e propria inversione del ritmo sonno-veglia, ma è stato anche osservato che i disturbi del sonno stessi (ad esempio deprivazione di sonno, insonnia e apnee) possono influenzare negativamente il decorso della malattia. Nei pazienti con sonno disturbato, sia in termini di quantità che di qualità , si riscontra un aumento del deposito cerebrale di una proteina (beta-amiloide) implicata nella genesi della malattia di Alzheimer. Lo studio ha dimostrato che tale aumento dipende da una sua ridotta eliminazione da parte del sistema glinfatico (il “sistema di pulizia†del cervello, particolarmente attivo proprio durante il sonno profondo).
La ricerca, oltre a dimostrare il forte legame presente tra disturbi del sonno e malattia di Alzheimer e dimostrarne il meccanismo, porta anche ad ulteriori considerazioni:
- in soggetti predisposti alla malattia di Alzheimer, fin dall'età giovanile, un sonno disturbato può favorire l'instaurarsi di processi neurodegenerativi;
- i processi neurodegenerativi stessi, caratteristici della malattia, possono a loro volta compromettere la regolazione del sonno, instaurando un vero e proprio circolo vizioso che accelera irrimediabilmente la progressione della malattia;
- non è solo la quantità del sonno ad essere rilevante, ma anche la sua “qualità â€: infatti è solo nel sonno profondo che il sistema glinfatico può svolgere efficientemente il compito di “pulizia†ed eliminazione delle sostanze neurotossiche che si accumulano in veglia;
- anche in assenza di altri fattori (riduzione del tempo di sonno o condizioni ipossiche), la sola frammentazione del sonno a livello cerebrale, ostacolando il mantenimento del sonno profondo, è in grado di innescare e mantenere il processo.
Sempre di più il sonno svela i suoi misteri: da un iniziale concetto di semplice interruzione della veglia (“tempo persoâ€), si sta sempre più comprendendo come il sonno sia un fenomeno attivo, durante il quale vengono eliminate le sostanze neurotossiche che si accumulano in veglia e regola il nostro metabolismo, il sistema immunitario e circolatorio. È comprensibile quindi come i disturbi del sonno, quali insonnie, apnee nel sonno e sindrome delle gambe senza riposo, per citare solo i più frequenti, costituiscano un significativo fattore di rischio per obesità , ipertensione, diabete, infarto, ictus, cancro e demenze e in tal senso da includere nelle politiche di prevenzione sanitaria.
«I disturbi del sonno in chi soffre di malattia di Alzheimer sono associati a un maggior declino cognitivo, peggior stato funzionale e ridotta qualità di vita», scrivono Ruth Benca della Psychiatry & Human Behavior Unit della Wake Forest School of Medicine di Irvine, e i suoi collaboratori, in un articolo pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease. «Inoltre le persone con malattia di Alzheimer che hanno anche disturbi del sonno presentano spesso sintomi comportamentali, depressione, apatia, sintomi psicotici, con un tipico peggioramento serale. Sono presenti anche comportamenti notturni disturbanti, con incremento del carico assistenziale per i caregiver. I disturbi del sonno rappresentano una delle principali cause di ricovero di persone con malattia di Alzheimer, proprio per l'azione stressante sui caregiver».
Intervenire sui disturbi del sonno in questa categoria di persone risulta particolarmente complicato. Si comincia di solito con strategie di tipo comportamentale, ad esempio l'esposizione alla luce durante le ore del giorno o l'esercizio fisico.
«La messa in atto di questi trattamenti non farmacologici può ridurre la probabilità che si debba ricorrere all'istituzionalizzazione e al suo carico economico — aggiunge Ruth Benca —. Ma assieme a queste strategie in molti casi è necessario ricorrere alla farmacoterapia per far sì che le persone possano restare a casa il più a lungo possibile».
I farmaci che agiscono sul sonno, però, hanno in genere limitazioni che mal si conciliano con la presenza di disturbi cognitivi, dal momento che aumentano la sonnolenza diurna e le probabilità di caduta e fratture.
Discorso valido sia per le benzodiazepine che per gli ipnotici non benzodiazepinici come lo zolpidem. Problemi possono derivare anche dall'utilizzo di antipsicotici.
Potenzialmente utili sono invece gli ipnotici antagonisti del recettore dell'orexina, apparsi efficaci e abbastanza sicuri per il trattamento dell'insonnia negli anziani con disturbi cognitivi.
«Però resta una generale condizione di incertezza a proposito del bilanciamento fra rischi e benefici del trattamento dei disturbi del sonno di persone con demenza di Alzheimer», conclude Ruth Benca.
Una ricerca condotta dall'I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS) su modelli animali mostra che un sonno frammentato può effettivamente portare ad alterazioni del metabolismo cerebrale, alcune delle quali simili a quelle della malattia di Alzheimer. La chiave del fenomeno sarebbe da ricercare nell'instaurarsi di una condizione di stress neurologico.
Pubblicata sulla rivista scientifica Frontiers in Aging Neurosciences, la ricerca, che vede la collaborazione del Tongji Medical College e della Huazhong University of Science and Technology (HUST) di Wuhan, in Cina, ha impiegato tecnologie di Tomografia a emissione di positroni (PET) di ultima generazione per valutare diversi parametri del metabolismo nervoso degli animali sottoposti a interruzioni del sonno.
“Dopo un mese e mezzo di sonno frammentato - dice Nicola D'Ascenzo, professore nel Dipartimento di Ingegneria Biomedica della HUST e Responsabile del Dipartimento di Fisica Medica ed Ingegneria del Neuromed - nel cervello degli animali abbiamo riscontrato la presenza della proteina tau-iperfosforilata (p-tau) assieme a segni di gliosiâ€.
Sia la presenza della p-tau che il fenomeno della gliosi (nel corso del quale la distruzione delle cellule nervose si accompagna alla formazione di una sorta di cicatrice) sono segni caratteristici della malattia di Alzheimer.
“D'altro canto - continua D'Ascenzo - abbiamo riscontrato un aumento del consumo di glucosio da parte dei neuroni, che nell'Alzheimer dovrebbe diminuire. Sappiamo però che il consumo di glucosio aumenta in condizioni di stress cellulare. Pensiamo quindi che il sonno disturbato abbia creato una situazione di stress che induce alterazioni simili a quelle di una patologia neurodegenerativa. Stiamo ora pianificando ulteriori ricerche, che si avvarranno delle grandi possibilità offerte dall'infrastruttura di ricerca europea Eurobioimaging, della quale Neuromed è nodo. La domanda alla quale cercheremo di rispondere è se la condizione di stress, protratta nel tempo, possa far diventare definitive le alterazioni osservate, portando alla malattia vera e propriaâ€.
Le implicazioni per la salute potrebbero essere rilevanti, come sottolinea il ricercatore: “Qui non stiamo parlando di durata del sonno, ma della sua qualità . Facciamo l'esempio di un messaggio che arriva sul cellulare: magari il beep non causerà un risveglio vero e proprio, ma comunque disturberà il sonno. E sappiamo che è molto diffusa, soprattutto nei giovani, l'abitudine di lasciare il cellulare acceso durante la notte, con i vari social che mandano continuamente messaggiâ€.
Le informazioni di medicina e salute non sostituiscono
l'intervento del medico curante
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