Uno studio francese presentato al congresso annuale dell'American Society of Clinical Oncology di Chicago mostra l'efficacia di un trattamento combinato per la cura degli oligodendrogliomi, neoplasie che crescono molto lentamente ma che hanno un alto grado di aggressività .
Dallo studio emerge la maggiore efficacia di un mix di farmaci rispetto a un trattamento basato su un unico medicinale.
L'oligodendroglioma colpisce soprattutto persone giovani, attorno ai 40 anni, sviluppandosi in particolare nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali con una tendenza a intaccare la corteccia cerebrale, generando irritazione neuronale e la loro scarica incontrollata: «In altre parole, favoriscono lo scatenamento di un accesso convulsivo epilettico - spiega al Corriere della Sera Enrico Franceschi, direttore dell'Oncologia del sistema nervoso all'IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna -. Quindi le crisi epilettiche sono fra i sintomi più tipici, insieme a quelli legati all'aumento di pressione nella cavità cranica (vomito, mal di testa, stato stuporoso, vertigini). A seconda della loro aggressività biologica, poi, gli oligodendrogliomi si dividono in gradi 2 (meno aggressivi) e gradi 3 (più aggressivi) - continua l'esperto -. Sono caratterizzati da caratteristiche molecolari specifiche (la mutazione del gene IDH e la codelezione dei cromosomi 1p19q) che conferiscono, nell'ambito dei gliomi, una prognosi più favorevole».
La sopravvivenza a 5 anni supera l'85% nei pazienti con oligodendroglioma di grado 2 ed è di circa il 75% nei pazienti di grado 3. A 10 anni è vivo il circa il 70-75% dei pazienti con neoplasia di grado 2 e circa il 60% con grado 3.
I dati fanno riferimento allo studio POLA, che ha registrato i trattamenti chemioterapici erogati dopo la radioterapia in oltre 300 pazienti operati per un oligodendroglioma di grado 3.
I risultati sulla sopravvivenza di 207 pazienti trattati con chemioterapia standard basata su 3 farmaci (procarbazina, CCNU e vincristina) sono stati messi a confronto con quelli relativi a un gruppo di 98 pazienti curati invece con un singolo farmaco, la temozolomide. In entrambi i casi si aggiungeva la radioterapia. L'aspettativa di vita a 5 anni è stata dell'89% nel gruppo trattato con PCV rispetto al 75% del gruppo temozolomide. Quella a 10 anni è stata rispettivamente del 72 e del 60 per cento.
«È una differenza che è stata considerata statisticamente significativa e che ci fornisce un dato di confronto finora mancante, che potrà dunque aiutare noi oncologi nelle future scelte terapeutiche», commenta Franceschi.
A quale sia il trattamento standard per gli oligodendrogliomi risponde Franceschi: «L'intervento chirurgico per rimuovere completamente o in parte il tumore è l'elemento cardine anche perché permette di formulare la diagnosi microscopica e molecolare integrata. A seconda del grado e dei fattori di rischio i trattamenti postchirurgici possono invece variare. Negli oligodendrogliomi di grado 2, in base criteri di rischio che sono valutati dopo l'intervento chirurgico (età , eventuali residui di malattia) è possibile scegliere fra sola osservazione e il trattamento con radioterapia seguita da chemioterapia.
Oltre a queste due opzioni, di recente sono stati pubblicati anche i dati relativi a un nuovo farmaco, vorasidenib, che inibisce una specifica mutazione a carico del gene IDH e che può permettere di posticipare i trattamenti radio e chemioterapici in alcuni pazienti selezionati.
Nei casi invece di oligodendroglioma di grado 3, in cui è presente una maggiore aggressività biologica, generalmente il trattamento di scelta dopo la chirurgia consiste in radioterapia seguita da polichemioterapia - conclude Franceschi -. Che si conferma, alla luce dello studio POLA, la strategia per ora migliore».
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