Infarto, l'ipotermia non serve

Studio italiano dimostra l'inefficacia dell'approccio

Uno studio dell'Ospedale Policlinico San Martino di Genova ha indagato l'effetto dell'ipotermia su un soggetto colpito da arresto cardiaco. Lo studio, coordinato dal prof. Paolo Pelosi, è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine.
L'arresto cardiaco è una patologia frequente (in Italia si stimano circa 1 caso/anno ogni 1000 abitanti), gravata da elevata mortalità (60.000 pazienti deceduti/anno e quasi 100.000 deceduti nel 2020) e caratterizzata da un peggioramento della qualità di vita nel 50% dei pazienti sopravvissuti.
In precedenti lavori effettuati negli anni 2000, era stata riportata la possibile efficacia dell'ipotermia a 32-33 °C quale tecnica per migliorare la prognosi clinica sia a breve che a lungo termine in quei pazienti che avevano subito un arresto cardiaco extra-ospedaliero. Tuttavia, tali studi avevano arruolato un numero limitato di soggetti.
Sebbene infatti le linee guida raccomandino fortemente una gestione mirata della temperatura con un obiettivo costante tra 32°C e 36°C, le stesse affermano anche che l'evidenza complessiva è di scarsa certezza.
Per questi motivi è stato pianificato e condotto un nuovo studio che ha incluso 1.900 pazienti dopo arresto cardiaco extra-ospedaliero, sottoposti in modo randomizzato, a ipotermia (temperatura di 33 °C) o a normotermia (evitando la febbre con temperatura superiore ai 37.8 °C, sia per mezzo di metodi farmacologici che meccanici).
Tra i principali risultati è emerso che:
- A 6 mesi dall'arresto cardiaco, la mortalità è risultata essere del 50% dei pazienti e le capacità funzionali limitate nel 50% dei pazienti, senza differenze significative tra i due gruppi;
- Non è stata evidenziata alcuna differenza di prognosi a breve e lungo termine tra i due gruppi;
- Le aritmie e alterazioni cardiovascolari sono state più frequenti nel gruppo trattato con ipotermia rispetto a quello trattato con normotermia.
Lo studio ha così permesso di dimostrare che l'uso dell'ipotermia dopo un arresto cardiaco extra-ospedaliero non solo non riduce la mortalità, ma è addirittura associato a un maggior rischio di complicanze severe e all'uso estensivo di mezzi meccanici per ridurre la temperatura.
In conclusione, nei pazienti dopo arresto cardiaco intra ed extra-ospedaliero, si suggerisce di effettuare un attento monitoraggio personalizzato della temperatura corporea, evitando l'insorgenza di febbre e di intervenire con mezzi farmacologici e/o meccanici solo se necessario. Tali risultati modificano le attuali raccomandazioni terapeutiche per tali pazienti, proponendo di mantenere la normotermia al fine di ridurre la frequenza delle complicanze, dei costi e del carico di lavoro sia medico che infermieristico in terapia intensiva.

05/07/2021 15:40:00 Andrea Sperelli


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