Soffrire di Long Covid è diventato un'eventualità meno probabile dopo l'avvento della variante Omicron e delle sue numerose sottovarianti. A sostenerlo è uno studio dell'Ospedale cantonale di San Gallo diretto da Carol Strahm e presentato al Congresso della Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive di Copenaghen.
Alla ricerca hanno partecipato 1.201 operatori di 9 network sanitari svizzeri con età media di 43 anni e per la maggioranza donne. Lo scopo dello studio era di valutare i tassi di strascichi post-Covid fra i medici infettati da Sars-CoV-2 del ceppo di Wuhan, dalla prima variante Omicron o da entrambi rispetto a un gruppo di controllo di persone non contagiate.
I partecipanti sono stati sottoposti regolarmente a test Covid-19 (tamponi nasofaringei e test anticorpali), hanno fornito informazioni sul proprio stato vaccinale e hanno risposto a tre riprese - nel marzo 2021, nel settembre 2021 e nel giugno 2022 - a questionari online che indagavano su 18 sintomi di Long Covid e sui livelli di affaticamento.
I disturbi che si sono manifestati con maggior frequenza sono stati la perdita di gusto e olfatto, stanchezza, esaurimento, perdita di capelli. Gli operatori sanitari colpiti dal ceppo di Wuhan avevano una probabilità di Long Covid superiore del 67% rispetto ai non contagiati, un rischio che è sceso nel tempo a +37% con l'arrivo delle nuove varianti. Per quanto riguarda invece i guariti da Omicron, rispetto ai non infettati non mostravano un rischio aumentato né di Long Covid né di affaticamento. Si è visto inoltre che reinfettarsi con Omicron dopo un precedente contagio da virus originale non comportava una probabilità maggiore di Long Covid, rispetto a una singola infezione da virus originale.
«Il Long Covid è un problema di salute pubblica significativo, con uno stato di malattia prolungato e a volte debilitante, opzioni terapeutiche limitate ed esito incerto», spiega Strahm. «La maggior parte dei dati disponibili sulle sequele post-infezione provengono da persone che hanno contratto Covid-19 relativamente presto nel corso della pandemia, prima dell'emergere della variante Omicron verso la fine del 2021», sottolinea la ricercatrice. «Ma con l'avvento di Omicron e il suo dominio globale con la conseguente esplosione di infezioni è fondamentale scoprire di più su chi è a rischio di Long Covid adesso e perché».
Sulla minore probabilità di Long Covid nei pazienti colpiti da Omicron, i ricercatori commentano: «Probabilmente quanto osservato è legato a una combinazione tra il fatto che la variante Omicron ha meno probabilità di causare malattia grave rispetto al virus wild-type (sappiamo infatti che il Long Covid è più comune dopo le forme gravi) e l'immunità acquisita attraverso una precedente esposizione al virus».
«I nostri risultati dovrebbero rassicurare chi si sta infettando adesso per la prima volta, così come chi ha già contratto l'infezione da virus originale. Tuttavia - puntualizza Strahm - è importante notare che i partecipanti al nostro studio erano soprattutto donne sane, giovani e vaccinate. I risultati potrebbero dunque essere diversi in una popolazione più malata, anziana e/o non vaccinata».
Uno studio del King's College di Londra pubblicato su The Lancet da un team diretto da Claire Steves ha analizzato i dati provenienti dallo studio ZOE Covid Symptom, confermando indirettamente i risultati svizzeri.
Secondo lo studio, i tassi legati ai sintomi di Long Covid si sono ridotti dal 20 al 50% nel periodo di dominanza della variante Omicron rispetto alla variante Delta.
La ricerca, in particolare, ha identificato 56.003 casi di COVID-19 tra adulti nel Regno Unito che hanno avuto un risultato positivo al test tra fine dicembre 2021 e marzo 2022, con Omicron variante dominante.
I casi sono stati confrontati con 41.361 pazienti rilevati fra giugno e novembre 2021, quando la variante dominante era invece Delta. Dai dati emerge che il 4,4% dei casi di Long Covid era dovuto a Omicron rispetto al 10,8% dei casi attribuibili a Delta.
“Una persona su 23 che ha avuto Covid-19 ha lamentato sintomi per più di quattro settimane”, sottolinea l'autrice Claire Steves. Un dato che, secondo l'esperta, sottolinea come queste persone debbano continuare ad essere seguite “al lavoro, a casa e nell'ambito del sistema sanitario nazionale”.
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