Uno studio dell'IRCCS Sant'Orsola pubblicato sull'International Journal of Gynecological Cancer smentisce le linee guida internazionali ed evidenzia l'importanza della chirurgia anche dopo chemioterapia neoadiuvante.
Quando il tumore ovarico è troppo diffuso per intervenire subito chirurgicamente, si procede con la chemioterapia neoadiuvante per ridurne l'estensione. Attualmente il numero di cicli di chemioterapia da eseguire prima della chirurgia non è standardizzato, ma le linee guida internazionali propongono tre cicli di chemioterapia. Una volta conclusi, la paziente viene rivalutata per decidere l'idoneità all'intervento.
E se la malattia non diminuisce in maniera ottimale? A quel punto, si aprono due strade. Operare comunque subito, probabilmente senza riuscire a rimuovere del tutto il tessuto tumorale. Oppure insistere con altri tre cicli di chemioterapia. Al termine dei quali, però, non tutti i centri propongono anche l'intervento: l'efficacia della chirurgia nelle pazienti in cui la chemioterapia agisce più lentamente è infatti messa in discussione e nel mondo l'atteggiamento dei chirurghi non è univoco.
Nel centro di Ginecologia Oncologica dell'IRCCS Sant'Orsola - che per quanto riguarda il carcinoma ovarico è l'unico hub di terzo livello dell'Emilia-Romagna e gestisce la più grande casistica pubblica a livello italiano - si propende per la seconda opzione. «Abbiamo sempre creduto nel ruolo della chirurgia radicale - spiegano il direttore dell'Unità Operativa Pierandrea De Iaco e la dottoressa Myriam Perrone - le evidenze scientifiche confermano che una chirurgia in grado di garantire la completa rimozione del tumore dall'addome senza lasciare alcun residuo neoplastico rappresenta la migliore strategia per prolungare la sopravvivenza di queste pazienti. Secondo noi questo concetto cardine è valido non solo nella malattia non trattata con chemioterapia, ma anche nella malattia dopo chemioterapia neoadiuvante, tanto che il nostro gruppo propone il massimo sforzo chirurgico anche alle pazienti sottoposte a sei cicli di chemioterapia. Questo tipo di scelta obbliga il team chirurgico a proporre interventi complessi, lunghi, spesso con rimozione di più organi».
I risultati dello studio, condotto sui dati di 300 pazienti curate al Sant'Orsola negli anni passati, confermano che l'intervento chirurgico radicale (cioè con asportazione di tutte le lesioni tumorali dopo più cicli di chemioterapia neoadiuvante) permette un netto miglioramento della sopravvivenza rispetto alle pazienti operate dopo meno cicli di chemioterapia, ma con un trattamento chirurgico insoddisfacente (cioè senza completa eradicazione della malattia visibile).
«Abbiamo quindi dimostrato che l'aumento del numero di cicli di chemioterapia neoadiuvante non influisce negativamente sull'esito clinico a condizione che si ottenga una completa rimozione chirurgica del tumore - proseguono De Iaco e Perrone - Questi risultati suggeriscono che la scelta di eseguire l'intervento chirurgico precocemente, solo per garantire un minor numero di cicli di chemioterapia neoadiuvante, potrebbe non essere la scelta ottimale, come precedentemente riportato in letteratura».
È chiaro che le migliori sopravvivenze sono state osservate nelle pazienti che hanno risposto rapidamente alla chemioterapia e sono state sottoposte a un'operazione chirurgica senza residuo di malattia, ad indicare che i casi in cui le cellule tumorali sono particolarmente sensibili alla terapia medica sono quelle che danno i risultati migliori. In particolare, le pazienti operate dopo tre cicli di chemioterapia senza residuo di malattia hanno mostrato una sopravvivenza media di quasi 8 anni, mentre quelle operate dopo sei cicli senza residuo di malattia hanno mostrato una sopravvivenza media di circa 5 anni. Al contrario si è confermato che le pazienti operate con malattia ancora molto diffusa e quindi senza possibilità di rimuovere tutti i noduli neoplastici dopo tre o sei cicli di chemioterapia, hanno avuto una sopravvivenza peggiore, inferiore a tre anni.
«Il nostro studio ha quindi dimostrato che nei casi con tumore molto diffuso e con lenta risposta alla chemioterapia è utile proseguire i trattamenti fino a sei cicli prima di procedere all'intervento chirurgico, in maniera che la chemioterapia riduca ulteriormente la malattia e consenta una chirurgia soddisfacente. Un ulteriore punto di forza della nostra esperienza è l'uso della laparoscopia», una procedura diagnostica mini-invasiva che viene utilizzata dopo 3 cicli di chemioterapia per valutare l'operabilità : l'alta percentuale di pazienti sottoposte a un'operazione chirurgica con risultato completo (70%) sta a indicare che con questo percorso di diagnosi le pazienti vengono adeguatamente selezionate, piuttosto che procedere ad una selezione soltanto sulle immagini radiologiche e sul valore dei marcatori tumorali.
«I risultati del nostro studio hanno importanti implicazioni per la pratica clinica e indicano la necessità di condurre ulteriori studi prospettici per stabilire il numero esatto di cicli di chemioterapia neoadiuvante e confermare i nostri risultati. Tuttavia, i nostri dati sottolineano già l'importanza di una chirurgia complessa e delicata nelle pazienti affette da carcinoma ovarico avanzato sottoposte a chemioterapia neoadiuvante. È fondamentale che il team selezioni le pazienti in maniera precisa, in quanto si è dimostrato che aumentare il numero di cicli di chemioterapia neoadiuvante non peggiora l'esito clinico dei pazienti purché si ottenga una completa citoriduzione chirurgica».
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