(2° pagina) (Torna alla 1° pagina..) di vita facendosi travolgere dall’euforia».
Già a partire dagli anni ’50 i medici capirono che intervenire su un’area del cervello denominata globo pallido. In quel modo si poteva fermare il tremore e altri sintomi della malattia di Parkinson perché proprio da lì partivano gli impulsi che li provocavano. Il problema era che l’intervento lasciava nei pazienti conseguenze pesanti da sostenere.
Nel decennio successivo c’è stato l’avvento della levodopa, il farmaco che sembrava emulare gli effetti dell’intervento chirurgico. Tuttavia, a partire dagli anni ’90, l’interesse per la pallidotomia si riaccese, anche se non si ipotizzò più un intervento chirurgico diretto, ma soltanto l’uso di impulsi elettrici.
La Deep brain stimulation, la stimolazione cerebrale profonda, fu creata nel 1987 dal neurochirurgo Alim Benabid dell’Università di Grenoble. Un microgeneratore di impulsi veniva posizionato nel cervello per acquietare l’iperattività del globo pallido e di altre strutture cerebrali coinvolte nell’innesco della malattia di Parkinson. Tuttavia, anche la Dbs prevede un certo grado di invasività, ovviamente non paragonabile a quello di un intervento chirurgico vero e proprio. La nuova terapia punta a superare anche questo limite.
«La MRgFUS sovverte l’approccio ai disordini del movimento, di cui il Parkinson è solo l’esempio più rappresentativo. Senza alcuna incisione o foro del cranio, ma solo con un casco stereotassico che può ricordare quello per la permanente, vengono collimati fasci ultrasonici con precisione millimetrica — spiegano Eleopra e Di Meco — La loro convergenza provoca un effetto termico (+60-70°) che brucia l’area cerebrale selezionata perfettamente dalla risonanza magnetica. Il trattamento in sé dura pochi secondi e richiede un’unica seduta di 2 ore dovute per lo più alla preparazione del paziente che resta sempre sveglio. Poi si alza dal lettino senza più tremare e semmai con un po’ di mal di testa e vertigine che passano rapidamente». «In non più del 15% dei casi possono esserci recidive al massimo entro un anno dal primo trattamento — aggiunge Di Meco — ma la procedura si può ripetere senza problemi restituendo al paziente la ritrovata normalità».
Ma l’ultrasonografia potrebbe rivelarsi utile anche per il trattamento dei tumori cerebrali, sebbene gli ultrasuoni debbano essere settati a una frequenza inferiore.
All’Istituto Besta sono stati già trattati una ventina di casi di glioblastomi primitivi o secondari, e si stanno studiando le possibilità di un utilizzo del macchinario anche in caso di metastasi cerebrali.
«Non pensiamo ancora a mirare i fasci ultrasonici sulle formazioni neoplastiche— spiega Di Meco — ma solo a risolvere un annoso problema del loro trattamento. Chemio- e immuno-terapici riescono infatti a raggiungerli solo in parte perché bloccati dalla barriera ematoencefalica, quella sorta di pellicola che riveste e isola il cervello per difenderlo da agenti tossici e infettivi che circolano nel resto del corpo. Con gli ultrasuoni focalizzati possiamo però aprire dei microvarchi transitori nella barriera, giusto il tempo per farla attraversare dai farmaci e ottenere quegli effetti che finora non eravamo mai riusciti ad avere. Un trattamento di questo tipo prevede in sala operatoria almeno 5 o 6 specialisti che agiranno fianco a fianco coi neurochirurghi nella coordinazione del trattamento combinato MRgFUS/chemioterapia».
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Notizie specifiche su: ultrasuoni, Parkinson, tremore, 06/03/2023 Andrea Sperelli


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